lunedì 26 maggio 2014

Maps to the Stars di David Cronenberg

Nelle sale dal 21 maggio
Julianne Moore Prix d’interprétation féminine a Cannes 2014


Maps to the Stars continua quel monologo lungo e alienato su cui piombavano i titoli di coda di Cosmopolis. O ancora meglio, Cosmopolis e Maps to the Stars sono l'ideale continuazione di A Dangerous Method, il molto dopo, quell'oracolo terribile e sibillino pronunciato da Jung mentre scruta le nubi all'orizzonte. Non (solo) la guerra e l'olocausto quindi, ma quegli orrori ancora di là da venire: la tragica perdita d'orientamento che la mano ferma di Cronenberg ha tratteggiato e continua a tratteggiare così bene.
Se Cosmopolis era a suo modo una mappa delle stelle, gli astri nascenti dell'economia che decidono le sorti del mondo dentro bozzoli di sughero e acciaio, Maps to the Stars ci parla delle stelle per antonomasia, i divi e le dive di Hollywood, dopo Wall Street, un altro microcosmo fuori dal mondo e a cui il mondo tuttavia continua a guardare. E Cronenberg ce lo racconta proprio così, attraverso una struttura corale di prototipi e stereotipi che gravitano intorno a Mulholland Drive: abbiamo Havana Segrand (Jullianne Moore, premiata a Cannes), attrice non più giovane che lotta per rimanere a galla e uscire dall'ombra di sua madre. Il suo terapista Stafford Weiss (John Cusack), psicologo/massaggiatore delle celebrità diventato a sua volta celebrità. La di lui moglie, figura insignificante che vive solo per assicurare il successo al figlio Benjie, divo tredicenne con problemi di droga. Jerome Fontana (Robert Pattinson), tipico autista di limousine (echi cosmopolisiani) aspirante attore aspirante sceneggiatore. E in fine, al centro e al di fuori di tutto, Agatha (Mia Wasikowska), la ragazza baciata dalle fiamme salita (o scesa ?) tra le stelle per scatenare un caos purificatore.
Bravissima e bellissima, anche sfigurata
Uno spietato affresco di Hollywood in cui paradossalmente il cinema è il grande assente, sempre distante, fuori campo, relegato a poche brevissime scene in cui viene semplicemente consumato, sulla televisione di una roulotte, oppure sugli schermi domestici, ma sempre a bocconi, piccole scene decontestualizzate e svuotate di ogni significato. Un bene di consumo appunto, che permette ad un'attricetta di mantenere il suo assurdo stile di vita, o di liberarsi di un'ingombrante figura materna. O ancora, squallide commedie per adolescenti che incassano centinaia di milioni e alimentano gli stravizi di attori bambini. Persino il sognatore Jerome, altro prototipo/stereotipo classico dell'ecosistema Hollywood, finisce per perdersi e scendere a compromessi, moderno Joe Gillis pronto a concedersi ad una versione laida e volgare di Norma Desmond pur di salire qualche gradino.
Se The Canyons raccontava la metamofosi del cinema nell'era del digitale, Maps to the Star racconta invece la paralisi del mondo che ruota intorno a quel cinema, lo showbusiness e i divi nell'era di The Canyons. Hollywood diviene una terra dei morti viventi, figure irrimediabilmente corrotte che complottano, tradiscono, si degradano e nascondono orribili segreti, con dinamiche e sviluppi degni delle peggiori soap-opera, come se fossero incapaci di sfuggire al loro ruolo, condannati a ripeterlo all'infinto. I corpi cronenberghiani si fanno sfacciatamente finti, fantasmi effimeri e patinati che potrebbero esistere soltanto sullo schermo e sarebbero disposti a tutto pur di rimanere nell'inquadratura. Nelle loro case, nelle loro vasche da bagno e nei loro letti, si agitano altri tipi di fantasmi, incorporei, o forse emanazioni di psicologie frammentate (eppure sanno cose che i personaggi non sanno), depositari di un'umanità perduta che tentano inutilmente di riportarli alla ragione, oppure osservatori come noi, che scendiamo dall'alto, cogliamo le loro vite per qualche istante e poi finalmente usciamo "a riveder le stelle".
Totentanz
Personaggi (nel vero senso del termine) senza speranza, condannati e pronti a condannare la propria prole, perché in ogni dramma famigliare che si rispetti le colpe dei padri devono necessariamente ricadere sui figli, e qui, proprio come in un girone infernale, il contrappasso consiste in una condanna a ripetere. Eppure la stiuazione è più complessa, basti pensare ad Havana Segrand, uno dei personaggi su cui il nostro sguardo si posa più a lungo, con cui dovremmo in qualche modo identificarci, una vittima, come si definisce lei, della madre, di un business spietato, dell'età... eppure quasi subito la sua maschera cade rivelando un altro tipo di fragilità, patetica e disgustosa, capace di nefandezze sempre più grandi e sempre più impensabili. Perché Maps to the Stars non è altro che una versione capovolta e incancrenita di Viale del Tramonto, l'affresco di un mondo rimasto fermo, condannato a ripetersi all'infinito, a perdersi ogni volta, una mappa delle stelle senza cordinate e senza via d'uscita. O forse la via d'uscita è proprio Agatha, unico vero personaggio cronenberghiano, carne lacerata e quindi viva, imperfetta, non patinata. Nella sua lucida follia, cerca di ritrovare l'amore e l'umanità che i genitori, messi di fronte alla loro mostruosità, hanno lasciato morire, una mostruosità che invece lei abbraccia in un brutale atto d'amore, plateale e ostentato come ogni gesto nel film, ma pur sempre un atto d'amore, come il poema di Paul Éluard recitato a più riprese dai personaggi, a cui Cronenberg e Wagner restituiscono un senso perduto: "quando poi, retrospettivamente, sono andato a studiarmi nel dettaglio tutta la sua genesi, ho visto che le intenzioni iniziali non erano quelle che sono state attribuite storicamente, ma c’era dietro la dedica d’amore nei confronti di una donna. In pratica è come se Bruce avesse riscoperto in modo istintivo il significato originario e nascosto nella poesia”.
E in fondo è un atto d'amore anche quello di Cronenberg e Wagner, perché per raccontare Holywood con uno sguardo così disilluso, devi amarla almeno un po', o forse semplicemente crederci, come ha osservato enrico ghezzi durante la conferenza stampa: "Personalmente non ho mai visto un film come questo, è una brillante e tragica dimostrazione del fatto che per realizzare un film devi credere in Hollywood o comunque credere in tutto oppure in niente."

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