giovedì 27 febbraio 2014

Tir di Alberto Fasulo

Nelle sale dal 27 febbraio
Vincitore del Marc'Aurelio d'Oro al Festival di Roma 2013.

La versione di Intrinseco
Tir è prima di tutto un film sulle (e ambientato nelle) distanze, quelle che separano il punto di partenza dalla destinazione, il luogo in cui le merci vengono caricate da quello in cui vengono scaricate, ma anche delle distanze dalla propria casa e i propri affetti, non a caso il protagonista -se così si può definire- è Branko, un insegnate sloveno che ha abbandonato il suo lavoro (di nuovo un allontanamento) per un altro più remunerativo, un eterno migrante che lascia moglie e figli e si reinventa camionista (un po' come l'attore, che ha preso la patente ed è letteralmente diventato il personaggio). Così il Tir che dà il titolo al film diventa la sua casa, un'unica claustrofobica location che però è in continuo movimento tra tanti non-luoghi, prima condivisa con un altro -il connazionale Maki- e poi vissuta in solitudine, per dormire, cucinare o lavarsi, un rifugio perennemente instabile che di punto in bianco potrebbe essere scambiato con un altro. Le cose importanti, quelle che in un film convenzionale sarebbero centro e motore della narrazione, sono lontane, chiuse fuori dalla cabina del camion. I rapporti umani, la famiglia e i soldi li intravediamo soltanto, o meglio, li sentiamo attraverso il viva voce del cellulare di Branko, l'unico filo che tiene ancorato quest'uomo alla deriva.

E allora, per dirla nel modo più banale possibile, Tir diventa inevitabilmente un film sull'Italia e "sulla crisi" (che si manifesta anche fisicamente, nella scena dei camionisti in sciopero), perché scruta e osserva chi quella crisi (umana prima che economica) la vive attraverso le rinunce, a una vita "normale", al lavoro dei propri sogni o semplicemente a delle coordinate sicure. Uomini alla deriva appunto, anche se sotto il naso hanno sempre uno schermo che li guida verso nuove destinazioni. Ma anche se fosse privo di legami con l'attualità, Tir rappresenterebbe comunque un documento umano drammatico e importante, anche solo per permetterci di osservare dall'altro lato del finestrino un mondo che crediamo di conoscere.
Giocando intelligentemente con realtà e finzione (anche se io avrei ridotto al minimo la seconda), Alberto Fasulo realizza un'opera antinarrativa e anticonvenzionale, lontanissima dalle forme preconfezionate in cui ristagna il cinema italiano. Un film fresco e internazionale che meritava di essere premiato perché questo tipo di cinema merita di essere incentivato, in Italia più che mai.

La versione de Il Monco.
"Non si uccidono così anche i cavalli?"
Quante volte ci imbattiamo in loro e ci incazziamo come dei trogloditi? Queste bestioni della strada a 6-8 ruote che invadono tutte le carreggiate disponibili, ci mettono tre quarti d'ora a fare manovra, vanno lenti come la fame e spesso sembrano farlo apposta. I camion, i TIR, che livore fanno venire! Li trattiamo sempre come fossero oggetti inanimati (e lo sono, aspettate, mica so' i transformer) e non ci rendiamo mai conto che dentro quelle cabine, insieme a dei calendari zozzissimi, ci sono anche degli uomini, che starebbero lavorando, anche per noi.
Che lavoro infame quello del camionista, e quanto poco lo conosciamo e rispettiamo. Facciamo facile ironia sulla loro pigrizia, sul loro aspetto fisico ma non andiamo oltre. Per fortuna Alberto Fasulo, dopo 5 anni di ricerca sul campo, ci ha regalato questo documentario, tra i migliori mai prodotti dall'Italia negli ultimi 50 anni (eh grazie! Non se ne fanno più).
Saliamo a bordo con Branko Zavrsan, croato, sulla cinquantina forse, in realtà insegnante. Fa questo lavoro perchè c'è richiesta e perchè rende 3 volte tanto (la scuola gli dava al massimo 450 euro). Sembra rassegnato a questo lavoro massacrante, non spera o cerca neanche una via d'uscita, una nuova opportunità. E' diventato il suo lavoro, come ammoniva Peter "The Wizard" Boyle al giovane Travis Bickle in Taxi Driver. Non si lamenta quasi più dei ritardi, delle infinite soste, della lontananza da casa, dei turni da fuorilegge, della mancanza di un bagno o delle comodità garantite dalla carta dei diritti umani. Lavora e basta. Anzi spesso guidare per ore e ore, magari fino in Francia, fino in Spagna, è anche un modo per fuggire dai propri problemi, è un modo per non pensarci.
Maki, più giovane di lui di una ventina d'anni, è l'esatto opposto. Non ci sta a sottostare ai ritmi folli e ai trucchetti dei padroni -figure viste raramente, spesso sentite al telefono, volti opachi, poco riconoscibili. Lo odia questo lavoro. Anche lui probabilmente non nasce camionista ma lo è diventato, costretto, ma non vuole che la sua vita rimanga questa. Si batte, litiga, probabilmente è ancora troppo presto per lui, per essere assorbito dagli ingranaggi di questo schiavismo.
I due rappresentano anche le due anime del documentario. La prima realistica, sincera, che viene interrotta da una realtà che conosciamo benissimo dai TG e dalla vita di ogni giorno (quando si imbatte nello sciopero dei colleghi, che lottano per non essere sfruttati e per evitare che altra gente, magari straniera e senza cattive intenzioni, lo faccia rubandogli il lavoro) e la seconda più romanzata, più cinematografica, ma non per questa fasulla, semplicemente costruita per arrivare a un messaggio e una voce diversa.
TIR è quindi un interessantissimo lavoro, profondo, completo da tutti i punti di vista, un documentario che non si avvicinerà ai mostri sacri stranieri che invadono sempre di più i festival ma che lascia una profonda traccia nello spettatore. E' un bel segnale quello lanciato dall'Italia di premiare due documentari nei suoi due ultimi e maggiori festival (Venezia e Roma), e se Sacro Gra aveva suscitato molte polemiche (sulla qualità e quindi sul premio. Insomma, si voleva premiare un documentario ma non si doveva farlo per forza. Vero è che forse senza questo, non ci sarebbe stato quello dato a TIR) il docu di Fasulo non dovrebbe affatto e non se le merita. Questo è un discorso personale e avulso dagli altri concorrenti in gara a Roma, perchè mi mancano quasi tutti. Non sto dicendo che ha meritato ma che aveva ed ha le carte per meritarsi un premio.



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