domenica 9 febbraio 2014

A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen

Nelle sale dal 6 febbraio

Play me something from Inside Llewyn Davis

Molti mesi fa, di fronte alle prime immagini di Inside Llewyn Davis, poteva sorgere il sospetto che sotto la barba nerissima di Oscar Isaac si nascondesse l'ennesima incarnazione cinematografica di Bob Dylan. Oggi invece sappiamo che il protagonista è vagamente ispirato a Dave Van Ronk, figura chiave nella scena folk newyorkese all'inizio degli anni '60. Il pre Bob Dylan insomma, prima che il folk americano diventasse protagonista di una piccola rivoluzione culturale. Ma per i Coen il dato biografico è collaterale, e, nonostante le ovvie analogie, il loro musicista vagabondo è piuttosto lontano da entrambe le figure in questione.
Llewyn Davis si muove nel Greenwich Village del 1961. Si muove letteralmente, da un appartamento all'altro, da un divano all'altro, sempre in fuga dai debiti, sempre alla ricerca di un pasto gratis o di un posto dove passare la notte. Dipende dagli altri perché non vuole lavorare, e non vuole lavorare perché esistere non gli basta. Unico superstite di un duo folk (e qui forse c'è dell'autobiografia. I Coen funzionerebbero separatamente ?), attraversa New York, e un pezzettino di America, alla ricerca della grande occasione, con la fedele chitarra in mano e un gatto sotto braccio.
La storia di Davies rappresenta la proverbiale chiusura di un cerchio, la fine di un percorso attraverso la storia della musica folk che si apre nel 2000 con Fratello dove sei ? e si chiude oggi con Inside Llewyn Davis, nuovo fortunato sodalizio con T Bone Burnett. Ma questo viaggio storico-musicale coincide anche con un cambiamento piuttosto radicale nella poetica coeniana: se infatti O brother, where art thou raccontava l'epica buffa e sgraziata delle origini, Inside Llewyn Davis è la tragedia disincantata di un'epoca che tramonta, un film sul sentimento della fine, sui personaggi ai margini che rimangono ai margini, e su un cambiamento inesorabile (come l'uragano di Larry Gopnik) che finisce per lasciarli indietro, lontani dal palcoscenico della storia. Una svolta pessimista che finisce per ripercuotersi anche sullo sguardo: qualche anno fa, per raccontare l'odissea di Everett McGill, i Coen si affidavano alla fotografia del fedelissimo Roger Deakins, che con un pesante lavoro di correzione del colore tentò di riprodurre l'effetto "seppia" delle fotografie antiche, oggi invece si rivolgono per la prima volta a Bruno Delbonnel (lo stesso del Faust di Sokurov, tanto per intenderci) che compie un'operazione altrettanto radicale ma diametralmente opposta: questa volta l'immagine è grigia e freddissima, come l'inverno newyorkese che si abbatte sul protagonista. Tutto è ricoperto da una patina biancastra e polverosa, come se luoghi e volti fossero imprigionati sui palcoscenici del Greenwich Village, colpiti dalle luci di scena e avvolti nel fumo di sigaretta, fantasmi dai contorni sbiaditi che ci parlano e ci cantano da un tempo che non c'è più.
E tra loro Llewyn Davis, personaggio tipicamente coeniano e allo stesso tempo incredibilmente distante dagli adorabili sconfitti dei loro film. Vittima del caso ma vittima soprattutto di se stesso, egocentrico, approfittatore e incapace di amare, ma pieno di rancori e invidie che riversa su chi invece ce l'ha fatta, uno stronzo insomma, come ripete all'infinito Carey Mulligan. Si vorrebbe tifare per lui, per l'artista bohémien che vive per l'arte e rifiuta i compromessi (anche se poi li accetta per disperazione), ma diventa subito evidente che è lui stesso a sabotarsi in continuazione. Perché Llewyn è proprio come una delle sue stesse canzoni folk, che "non è mai stata nuova e non invecchia mai" e parla di dolorosi addii o uomini impiccati, un brano fuori dal tempo condannato a ripetersi sempre uguale, in un limbo da cui si può ucire solo attraverso la porta sul retro, come ha scelto di fare il suo socio Mike.
Ripensando al resto della filmografia dei Coen, sarei tentato di definire Inside Llewyn Davis un film "minore", non perché sia peggiore o meno importante di altri, al contrario, ma perché è semplicemente più piccolo e intimista (specie se messo a confronto con i temi alti di un A Serious Man), un'opera che torna su storie e personaggi già affrontati con uno sguardo quasi inedito, meno ironico del solito e incredibilmente amaro, ma sempre cristallino. Minore o no, è uno dei loro film più belli e disperati.

Hey, hey Woody Guthrie, I wrote you a song
'Bout a funny ol' world that's a-comin' along.
Seems sick an' it's hungry, it's tired an' it's torn,
It looks like it's a-dyin' an' it's hardly been born.

8 commenti:

  1. Mi trovo concorde su praticamente tutto, direi. Non avevo colto la connessione tra la frase di Llewyn e lo stesso "limbo" che è la sua vita, mi pare ci stia tutta. È una storia amara, però comunque un po' della ironia nera dei fratelli c'è (durante Please Mr. Kennedy ho sghignazzato non poco).
    Se non si voglia parlare di "minore" - mi pare adatto in quel senso, però l'opinione comune tende a vederci troppo spesso una venatura negativa, - si potrebbe parlare di "diverso", o anche meglio "concreto", "terreno". A Serious Man aveva temi riguardanti i grandi sistemi dell'esistenza, qua ce ne offrono di meno "nobili", però secondo me non meno intensi. La situazione di Davis poi si offre benissimo ad essere fatta propria da chi la vede, anzi IMHO gli stessi Coen si sono rivisti in lui - per il non volersi piegare ai compromessi, più che altro.
    Bellissimo comunque, è sicuro tra i miei preferiti del duo, tra quelli che ho visto.

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    1. Certo, l'ironia c'è, ma anche quella è più amara de solito. Pensa solo a tutta la sequenza con John Goodman, forse il momento più divertente del film, ma anche quello più teso e opprimente.

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    2. Ah sì sì, nulla da obiettare su questo (bellissima quella sequenza, sia per citazioni, sia per riferimenti). Così amara si era vista solo in A Serious Man probabilmente, dove però lo sguardo mi pare più distaccato; qui mi sembra ci sia più partecipazione nella vicenda, il che rende tutto più tendente alla malinconia della sconfitta.

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  2. il film non m'è piaciuto affatto... noioso, insensato e quella troppa muisca folk che non amo...

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  3. Ottima recensione ma il film a me non è piaciuto per niente, l"ho trovato noioso (per fortuna c'era la musica) in piu non sono riuscita a capire dove volessero andare a parare i coen. Per me tropo rumore per nulla.

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  4. Vorrei farvi una domanda sul film, in particolare sul legame che c'è (o non c'è?) fra inizio e fine. All'inizio Llewyn è nel locale, canta la sua canzone (Fare thee well, se non ricordo male), e poi fa la battuta sulle canzoni folk: "se non è mai stata nuova e non invecchia mai, allora è una canzone folk". Dopodiché scende dal palco. Alla fine la scena sembra ripetersi, e per un attimo ci si convince che quello visto all'inizio del film sia in realtà la fine, ma...il finale è leggermente diverso! Infatti, alla fine, dopo aver cantato e rifatto la stessa battuta, dice qualcosa come: "ne ho ancora una" e canta la canzone che faceva in duo col compagno suicida, quella che ha causato il trambusto con la moglie dell'amico facoltoso. Come lo spiegate? Mi sembra strano che non voglia significare nulla? Forse i Coen volevano trasmettere il senso di una esistenza circolare in cui il protagonista è vittima all'infinito degli stessi problemi?

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    1. Credo si possa interpretare il tutto come un lungo flashback. L'inizio e la fine sono la stessa scena, solo che quando la vediamo per la seconda è più lunga, come notavi tu. Ci mostrano la stessa cosa in due modi diversi per suggerire un'idea di circolarità. Davis non sta realmente vivendo un'esistenza circolare (se vogliamo la storia si conclude con la scena in cui chiude la porta senza far uscire il gatto), ma regia e montaggio suggeriscono quell'idea.

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