sabato 4 maggio 2013

Il Cecchino di Michele Placido

Nelle sale dal 2 aprile 

Con Placido ho un rapporto conflittuale, per non dire che non lo reggo proprio. E' un'antipatia a pelle che non saprei nemmeno spiegare, rivolta in particolare all'attore e al personaggio pubblico, quello che urla alle conferenze stampa perché qualcuno gli ha chiesto come si fa a girare un film sul '68 con i soldi di Berlusconi, e poi non so perché ma continuo ad associarlo al personaggio del divo paraculo che interpretava nel Caimano di Moretti.
Con il Placido regista invece non ho nessun rapporto particolare, o meglio, non lo avevo finché non ho visto Il Grande Sonno (il più criticato Vallazansca mi infastidì meno), tentativo goffissimo di fondere fiction e cinema politico che sfocia in una rappresentazione quasi parodistica del movimento studentesco.
Quando però ho saputo di questo Il Cecchino si è acceso un qualche interesse, un film di genere con un cast di tutto rispetto e una sceneggiatura in cui Placido non ha messo mano, per di più un polar (unione di poliziesco e noir) realizzato in Francia, da sempre terreno fertile per il cinema di qualità.
Ma vediamo di che si tratta: Nico (Luca Argentero) e la sua banda di rapinatori di banche sono inarrestabili, quasi venti rapine andate a segno in due anni. Alle loro costole c'è il capitano Mattei (Daniel Auteuil) pronto a farne una questione personale, ma ogni volta che li coglie sul fatto compare un misterioso cecchino (Mathieu Kassovitz) che fa piazza pulita degli agenti e permette ai criminali di scappare. L'ultimo colpo però va storto, Nico viene ferito e la banda deve improvvisare una precipitosa fuga a casa di un medico (Olivier Gourmet), ma qualcuno fa una soffiata alla polizia e il cecchino senza nome viene arrestato. Mentre il capitano Mattei tenta inutilmente di scoprire la sua identità, lui pianifica la fuga e la vendetta su chi lo ha tradito.

A cinque minuti dall'inizio siamo già catapultati nel mezzo dell'azione, ed è subito evidente che Placido dietro la macchina da presa è a suo agio anche in una scena piuttosto concitata come quella della rapina. Niente per cui gridare al miracolo e nessun particolare virtuosismo, salvo forse qualche panoramica dall'alto che rispecchia il punto di vista del cecchino, ma comunque se la sbriga dignitosamente. Il problema è la sceneggiautra, ma questa volta la colpa è solo degli esordienti Cedric Melon e Denis Brusseaux, che tirano fuori un prodotto fastidiosamente standardizzato fin dalle prime scene. La struttura infatti è il classico puzzle di flashback e flashforward che complicano inutilmente la struttura narrativa, forse per dare ritmo e dinamismo ad una storia piuttosto piatta in cui il grosso dell'azione è concentrato nella primissima sequenza. Inutilmente perché il film è talmente breve e leggero che certi stratagemmi rischiano più che altro di appesantirlo.
Nel secondo tempo la narrazione non lineare viene gradualmente abbandonata, ma la confusione narrativa rimane, tra evitabilissimi vicoli ciechi (la parentesi quasi torture porn che si apre ad un certo punto) e colpi di scena prevedibili quanto forzati. Si direbbe quasi che i due sceneggiatori, rendendosi conto di avere materiale per un'oretta scarsa, abbiano cercato di allungare il brodo quanto bastava per raggiungere i novanta minuti. Ma il vero delitto sono i personaggi, figure nate morte senza traccia di tridimensionalità. In particolare i due protagonisti, il cecchino e il commissario Mattei, due volti che dovrebbero rubare la scena a tutti gli altri calamitando l'attenzione sullo scontro tra due personalità forti, ma che invece si perdono nella piattezza generale o vengono semplicemente tenute fuori dalla scena per dare il giusto spazio alla matassa da sbrogliare, tanto che ad un certo punto ci si chiede il perché del titolo.
Il Cecchino è inconsistente, un poliziesco come se ne vedono troppi confezionato intorno ad un cast di spessore. Purtroppo le star francesi sono all'altezza del film, Autueil fa il minimo sindacale e Kassovitz sembra perennemente fuori posto. Michele Placido si limita a dirigere il tutto senza troppo trasporto. Non ci si diverte ma almeno scorre via in fretta.

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