mercoledì 2 gennaio 2013

Frankenweenie di Tim Burton


Nelle sale dal 17 gennaio.
Vincent è un ragazzino intelligente e introverso che passa le giornate in compagnia del suo cagnolino Sparky fino a quando, durante una partita di baseball a cui partecipa solo per compiacere il padre, la povera bestiola viene travolta e uccisa da una macchina mentre cerca di riportare al padroncino la palla andata fuori campo. Durante una lezione del professor Rzykruski sul sistema nervoso e l'elettricità a Vincent viene un'idea per riportare in vita il suo animaletto, ma la giornata della scienza è alle porte e l'esperimento del protagonista fa gola ai compagni di classe che, mossi dal solo desiderio di primeggiare, iniziano a giocare pericolosamente con la vita e la morte.
Chi legge questo blog e ascolta il podcast con regolarità sa cosa penso delle opere recenti di Tim Burton: dopo Big Fish, ultima pellicola davvero notevole e summa del suo cinema, il regista di Burbank si è perso nell'autoreferenzialità, naufragando in un mare di mediocrità fatto di film tutti uguali a loro stessi; se i primi tre (La fabbrica di cioccolato – La sposa cadavere – Sweeney Todd) restano nonostante tutto pellicole godibili, gli ultimi due (Alice in Wonderland e Dark Shadows) sembravano i chiodi di una bara che Burton stesso si era costruito, lasciando da parte ciò che rendeva grande il suo cinema e focalizzandosi su un'estetica ormai stucchevole e sull'abusata e facilona figura del freak personificata nell'ossessivo sodalizio con Johnny Depp.
Vi confesso che, in questo panorama, l'idea di tornare su un corto girato in passato, ampliarlo e renderlo una pellicola da un'ora e mezza sembrava abbastanza peregrina, l'ennesimo tentativo di sfruttare commercialmente la gallina dalle uova d'oro.
E invece no, Frankenweenie non solo funziona, è un ottimo film, degno della compagnia delle migliori opere di Burton.
Ciò che subito appare evidente è un ritorno a un'estetica più semplice, quasi minimale, che si manifesta in un anticonvenzionale bianco e nero scevro di tutti i fronzoli che appesantivano lo stile visivo dell'autore in tempi recenti: New Holland è il villaggio di edward Mani di forbice (altra felice rilettura del mito di Frankenstein) fatto di case prefabbricate tutte identiche, prati perfetti e cittadini ossessionati dall'apparenza; Burton gioca sapientemente con luci ed ombre e con architetture gotiche facendo il verso ai Monster movie della Universal degli anni 30 e, di riflesso, al cinema espressionista tedesco.
Quel che però colpisce di più è, senza ombra alcuna di dubbio, la qualità della narrazione: non c'è una singola sbavatura, nessun personaggio o elemento di troppo, nonostante si tratti di un lavoro di aggiunta su uno script elementare, nessun virtuosismo di macchina da presa esagerato e fine a se stesso; una regia solida, concreta, che bada al sodo lavorando, paradossalmente, per sottrazione senza concedersi mai un calo di ritmo. Se proprio dovessi cercare il pelo nell'uovo direi che il climax nel finale si risolve in maniera leggermente melensa e prevedibile, ma tenendo conto che si tratta di un film d'animazione che deve sempre avere un occhio di riguardo per lo spettatore adolescente/pre-adolescente si tratta tutto sommato di un “difetto” trascurabile. Si parlava dei personaggi: deliziosa la galleria di freak della classe di Victor e i relativi animaletti, vivi o meno, che sottolineano ed esasperano i tratti psicologici dei loro padroncini, o che giocano con le etnie di questi (si veda, ad esempio, la tartaruga-godzilla del bimbo asiatico); tutti i personaggi godono di una buona caratterizzazione tranne i genitori di Victor, piuttosto abbozzati, anomalia nel cinema di padri e figli di Burton dove le figure paterne hanno sempre avuto un'importanza centrale.
Frankenweenie è un quasi-suicidio commercialmente parlando (un cartone animato a passo uno in bianco e nero che parla di animali morti riportati in vita, targato Disney) ma è anche e sopratutto un gioiellino di concretezza e semplicità, pieno di citazioni al cinema horror targato Universal già citato; una storia incredibilmente delicata e genuina che tocca le giuste corde emotive al momento giusto: più o meno tutti sappiamo cosa vuol dire avere avuto un amico a 4 zampe ed aver sofferto per la sua dipartita, o almeno possiamo immaginare cosa significherebbe perderlo. Sembrerà un concetto banale quanto vacuo, ma quel che più conta è che il regista di Burbank sia finalmente tornato a fare cinema con il cuore, quello che mancava nelle sue opere più recenti, fatte più di testa che di pancia.
E forse lui è il primo ad esserne cosciente, lo scambio di battute fra Victor e il professore Rzykruski  (doppiato da Martin Landau) sull'amore per i propri esperimenti e sulla riuscita di questi in rapporto alla passione con cui si affrontano appare perfettamente calzante.
Burton non era morto, se n'era solo andato per un paio di film, gioite fratelli.

2 commenti:

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  2. Visto.
    E devo dire che c'è poco da aggiungere a quello che avete detto nel podcast ad esso dedicato. Il film non è altro che una spalmatura del corto di cui non si sentiva la necessità. Nel senso che il film in sè si lascia guardare, ma in 1/3 del tempo si riusciva a far capire lo stesso quello che Burton voleva trasmettere, ed aveva già trasmesso, con il corto ad esso dedicato.
    Molto bella la citazione del professor Rzykruski sul fatto che "le persone amano ciò che la scienza gli offre, ma hanno paura delle domande che essa pone". Unico dialogo degno di nota del film.
    Concluderei dicendo che non mi ha entusiasmato moltissimo ma, la durata comunque breve, potrebbe meritare uno sguardo.

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